Pronunciandosi su un caso “turco” in cui si discuteva della legittimità della decisione delle autorità giudiziarie che avevano confermato il licenziamento del ricorrente per aver inviato un’e-mail in cui si criticava un dirigente della banca, la Corte EDU ha ritenuto, all’unanimità, violato l’articolo 10 (libertà di espressione) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU, Sez. II, sentenza 20 febbraio 2024, n. 48340/20).

Il caso, deciso il 20 febbraio 2024, traeva origine da un ricorso (n. 48340/20) contro la Turchia, presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione e.d.u., da M. T. D., un cittadino turco residente a Maidenhead (Regno Unito).

Il ricorrente è un ingegnere informatico. All’epoca dei fatti, il ricorrente era impiegato come specialista informatico presso la T. con un contratto di lavoro disciplinato dal diritto privato. Nel dicembre 2016 ha inviato un’e-mail dal suo account di posta professionale al personale del dipartimento delle risorse umane, in copia ad un vicedirettore dell’azienda. Quella e-mail – il cui oggetto era “Jeff Bezos contro HK” – riguardava le pratiche di gestione del presidente del consiglio di amministrazione del principale azionista di T. Nella sua e-mail, il ricorrente ha criticato lo stile e le pratiche di gestione di HK, confrontando le azioni e le decisioni di quest’ultimo con quelle di Jeff Bezos quando si trattava della gestione delle rispettive società. In particolare, ha criticato HK per essersi distaccato dai suoi dipendenti, per aver revocato aiuti finanziari loro concessi, per avere uno stile di gestione autoritario e per aver mostrato favoritismi nelle assunzioni.

Lo stesso giorno, il datore di lavoro del ricorrente ha avviato un procedimento disciplinare nei suoi confronti e il giorno successivo ha risolto il suo contratto di lavoro. Il datore di lavoro ha ritenuto, in particolare, che il contenuto dell’e-mail fosse dispregiativo, falso e prendesse in giro HK; che conteneva parole che potevano essere qualificate come ingiuriose e diffamatorie; e che aveva oltrepassato i limiti di una critica accettabile nei confronti di HK.

Nel febbraio 2017 il ricorrente ha presentato ricorso per licenziamento illegittimo presso il Tribunale per il lavoro di Istanbul, facendo valere in particolare il suo diritto alla libertà di espressione. Il tribunale si è pronunciato a suo favore e ha dichiarato nullo il suo licenziamento. Il datore di lavoro ha presentato ricorso contro tale decisione presso la Corte d’appello regionale di Istanbul, che ha annullato la sentenza del tribunale di primo grado del lavoro.

La Corte d’appello regionale ha ritenuto, in particolare, che esistevano validi motivi ai sensi dell’articolo 18 del Codice del lavoro per giustificare la cessazione del rapporto di lavoro e che, sebbene le espressioni utilizzate nell’email del ricorrente non contenessero insulti o minacce, erano comunque andate oltre i limiti della critica accettabile e aveva causato fastidio sul posto di lavoro. La Corte di cassazione ha confermato tale decisione e la Corte costituzionale ha ritenuto che non vi fosse stata alcuna ingerenza nei diritti del ricorrente tale da costituire una violazione.

Il ricorso e le norme violate

Rivolgendosi alla Corte di Strasburgo, basandosi sull’art. 10, il ricorrente riteneva che il licenziamento avesse violato la sua libertà di espressione tutelata dalla Convenzione EDU.

Il ricorso è stato depositato presso la Corte europea dei diritti dell’uomo il 9 ottobre 2020.

La decisione della Corte di Strasburgo

La Corte di Strasburgo ha osservato che, secondo le autorità nazionali, esisteva un certo nesso tra la tutela della reputazione di HK, da un lato, e il mantenimento della pace e dell’armonia sul posto di lavoro, dall’altro. I giudici nazionali avevano quindi constatato che un disturbo era stato causato sul posto di lavoro dal fatto che l’e-mail del ricorrente conteneva espressioni che, a loro avviso, oltrepassavano i limiti di una critica accettabile nei confronti di HK.

La Corte ha ritenuto che le autorità nazionali avessero così perseguito scopi legittimi riconosciuti dall’articolo 10 della Convenzione, vale a dire la tutela della reputazione o dei diritti altrui, compresi gli interessi del datore di lavoro sul posto di lavoro. Essa ha tuttavia osservato che, nel giungere alla conclusione che l’e-mail del ricorrente aveva causato un disturbo tale da turbare la quiete e l’ordine sul posto di lavoro, i giudici nazionali non sembravano aver condotto un’indagine sufficientemente approfondita ed un esame adeguato del contenuto dell’e-mail in questione, del contesto in cui è stata inviata, della sua potenziale portata o impatto, delle sue presunte conseguenze negative per il datore di lavoro o sul luogo di lavoro, o della gravità della sanzione inflitta al ricorrente: tutti elementi che invece la Corte aveva precedentemente preso in considerazione in cause riguardanti la libertà di espressione dei dipendenti. A tale riguardo, la Corte EDU ha rilevato in particolare i seguenti punti.

Per quanto riguarda il contenuto dell’e-mail, il ricorrente aveva sostanzialmente sottoposto HK a dure critiche, sostenendo che le pratiche di gestione di quest’ultimo erano incompatibili con un approccio moderno alla gestione, senza però usare nei suoi confronti alcun linguaggio ingiurioso o volgare. Pertanto, la Corte ha constatato che, a seguito di scambi inconcludenti avuti con i suoi superiori riguardo alle lamentele che aveva precedentemente portato alla loro attenzione, il ricorrente aveva criticato nella sua e-mail le presunte carenze nella gestione della società. Secondo la Corte tali critiche costituivano indubbiamente motivo di interesse per l’impresa interessata.

È vero che il ricorrente aveva utilizzato un linguaggio sarcastico. Tuttavia, tenuto conto dell’oggetto dell’e-mail, del contesto in cui è stata inviata e dei suoi destinatari, lo stile e il contenuto provocatori e alquanto offensivi dell’e-mail non possono essere considerati gratuitamente offensivi nel contesto in cui è stata inviata, ovvero un dibattito di interesse per l’azienda. Inoltre, la Corte d’appello regionale non era riuscita a individuare le espressioni specifiche contenute nell’e-mail che aveva ritenuto problematiche; né aveva valutato le espressioni utilizzate dal ricorrente.

Inoltre, l’e-mail in questione era stata inviata dal ricorrente internamente ad un piccolo gruppo di destinatari all’interno dell’azienda, vale a dire al team delle risorse umane interessato e al capo del dipartimento in cui lavorava il ricorrente. Inoltre, le autorità non avevano affermato che l’e-mail – che non era destinata al grande pubblico – fosse stata divulgata al pubblico o condivisa con altri dipendenti della società al di fuori degli appositi canali procedurali. Di conseguenza, l’impatto dell’e-mail sul datore di lavoro e sul posto di lavoro doveva essere stato molto limitato.

Infine, le autorità nazionali non avrebbero cercato di accertare attraverso un’analisi approfondita se l’e-mail del ricorrente avesse creato fastidio sul posto di lavoro o avesse avuto un impatto negativo sul datore di lavoro. Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che le autorità nazionali non avessero tenuto conto di tutti i fatti e fattori rilevanti per concludere che le azioni del ricorrente erano tali da turbare la pace e l’armonia sul posto di lavoro. In particolare, non avrebbero tentato di valutare se l’e-mail fosse idonea ad avere conseguenze dannose sul luogo di lavoro del ricorrente, tenuto conto del suo contenuto, del contesto professionale in cui era stata inviata e dei suoi potenziali effetti e impatti sul luogo di lavoro. Pertanto, i motivi addotti per giustificare il licenziamento del ricorrente non potevano essere considerati pertinenti e sufficienti.

Quanto alla gravità della sanzione, il collegio disciplinare del datore di lavoro – la cui decisione era stata confermata dai giudici nazionali – aveva inflitto la sanzione più pesante che potesse essere applicata, vale a dire il licenziamento immediato, senza considerare la possibilità di applicare una sanzione più leggera, avendo riguardo alle circostanze del caso. La Corte ha pertanto ritenuto che le autorità nazionali non avevano dimostrato in modo convincente nella motivazione delle loro decisioni che, nel respingere la domanda di licenziamento illegittimo del ricorrente, era stato raggiunto un giusto equilibrio tra la sua libertà di espressione e il diritto del datore di lavoro di tutelare gli interessi legittimi dell’impresa. Ne consegue che vi era stata violazione dell’articolo 10 della Convenzione. La Corte ha ritenuto che la Turchia dovesse corrispondere al ricorrente, a titolo di equa soddisfazione, la somma di 2.600 euro a titolo di danno morale e di 1.000 euro a titolo di costi e spese.

I precedenti ed i possibili impatti pratico-operativi

Di interesse la questione esaminata dalla sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo nel caso in esame, conclusosi con l’affermazione della responsabilità della Turchia per la violazione della libertà di espressione di un uomo, ex dipendente di un istituto di credito, il quale era stato condannato per diffamazione perché, inviando un’email dal proprio account di posta elettronica aziendale al dipartimento risorse umane della banca e per conoscenza ad un vicedirettore della stessa, aveva “osato” criticare un alto dirigente per i metodi impiegati nella gestione.

Lucido e ineccepibile l’approdo della Corte EDU che ha ritenuto violata la libertà di espressione del dipendente, non solo perché la critica, pur aspra, era motivata da ragioni serie, ma anche per il fatto che la mail era stata inviata ad un gruppo ristretto di persone e alla stessa non era stata data ampia diffusione, sicché il danno subito dal diffamato ben poteva dirsi assai limitato.

I giudici europei hanno, inoltre, stigmatizzato il comportamento delle autorità giudiziarie, segnatamente della Corte d’appello, per non aver contestualizzato il contenuto dell’e-mail verificando se la stessa potesse dirsi realmente offensiva e, soprattutto, se potesse giustificare l’irrogazione della massima sanzione disciplinare, qual era il licenziamento, anziché graduare la risposta alla modesta gravità del fatto.

È una decisione che merita senza alcun dubbio di essere favorevolmente commentata, affrontando in maniera assai puntuale una questione che, sovente, si presenta anche nelle nostre aule giudiziarie e riguardante i limiti del diritto di critica del dipendente verso i superiori.

La nostra giurisprudenza è orientata al massimo rispetto dei canoni esegetici fissati dai giudici sovranazionali. In particolare, si è, ad esempio, affermato che non integra il delitto di diffamazione la condotta di colui che indirizzi un esposto – contenente espressioni offensive nei confronti di un militare – all’Autorità disciplinare dell’Arma dei carabinieri, in quanto, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., sub specie dell’esercizio di un diritto di critica, costituzionalmente tutelato dall’art. 21 Cost. e da ritenersi prevalente rispetto al bene della dignità personale, pure tutelato dalla Costituzione agli artt. 2 e 3, considerato che senza la libertà di espressione e di critica la dialettica democratica non può realizzarsi (Cass. pen., Sez. V, n. 13549 del 20/2/2008, CED Cass. 239825 – 01).

Analogamente, in sede civile, si è affermato che l’esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo se limitato a difendere la propria posizione soggettiva, nel rispetto della verità oggettiva, e con modalità e termini inidonei a ledere il decoro del datore di lavoro o del superiore gerarchico e a determinare un pregiudizio per l’impresa (Cass. civ., Sez. lav., n. 21649 del 26/10/2016, CED Cass. 641460 – 01, in cui la S.C. ha ritenuto correttamente inquadrato nel legittimo diritto di critica l’invio al datore di lavoro di una lettera di denuncia del lavoratore di comportamenti scorretti ed offensivi posti in essere dal superiore gerarchico in proprio danno, con allegato un parere “pro veritate” di un penalista).

Importante è peraltro operare una ricognizione della Corte EDU.

La Corte è solita ricordare che la tutela dell’articolo 10 della Convenzione si estende alla sfera professionale in generale (CEDU, M. c. Turchia, 15/6/2021, n. 35786/19, § 39; CEDU, H. c. Ungheria, 5/11/2019, n. 11608/15, § 36) e che tale disposizione è necessaria non solo nei rapporti tra datore di lavoro e lavoratore quando questi obbediscono al diritto pubblico, ma può applicarsi anche quando tali rapporti rientrano, come nel caso di specie, nel diritto privato (CEDU, H. c. Germania, 21/7/2011, n. 28274/08, § 44; CEDU, F. B. c. Spagna, 29/2/2000, n. 39293/98, § 38).

L’esercizio reale ed effettivo della libertà di espressione, infatti, non dipende semplicemente dal dovere dello Stato di astenersi da qualsiasi ingerenza, ma può richiedere misure positive di tutela anche nei rapporti dei singoli tra loro e, in certi casi, lo Stato ha l’obbligo positivo di tutelare il diritto alla libertà di espressione, anche contro gli attacchi di privati (CEDU, P. S. e altri c. Spagna [GC], 12/9/2011, nn. 28955/06 e altri 3, § 59). Sebbene il confine tra gli obblighi positivi e negativi dello Stato nei confronti della Convenzione non si presti ad una definizione precisa, i principi applicabili sono tuttavia comparabili. In particolare, in entrambi i casi, occorre tener conto del giusto equilibrio da mantenere tra interessi concorrenti, lasciando allo Stato in ogni caso un margine di apprezzamento (P. S. e altri, sopra citata, § 62).

La questione principale che si pone in casi come quello qui commentato è quindi se lo Stato sia tenuto a garantire il rispetto della libertà di espressione del dipendente accogliendo la domanda di annullamento del suo licenziamento. Compito della Corte è quindi quello di verificare nel caso di specie se i giudici nazionali, nel respingere la suddetta richiesta del ricorrente, abbiano debitamente garantito il diritto del ricorrente alla libertà di espressione, come garantito dall’articolo 10, nell’ambito dei rapporti di lavoro e lo abbiano adeguatamente bilanciato con il diritto del datore di lavoro alla tutela dei propri interessi (H., sopra citata, § 39).

A tal fine, si deve stabilire se la sanzione inflitta al ricorrente dal suo datore di lavoro fosse proporzionata allo scopo legittimo perseguito e se le ragioni addotte dalle autorità nazionali per giustificarla fossero “pertinenti e sufficienti”. La Corte ricorda a questo proposito che, per poter prosperare, i rapporti di lavoro devono fondarsi sulla fiducia tra le persone. Anche se la buona fede che deve essere rispettata nell’ambito di un contratto di lavoro non implica un dovere di assoluta lealtà nei confronti del datore di lavoro né un obbligo di riservatezza che comporti la sottomissione del lavoratore agli interessi del datore di lavoro, talune manifestazioni del diritto alla libertà di espressione che potrebbero essere legittime in altri contesti, non lo sono nell’ambito del rapporto di lavoro (P. S. e altri, sopra citata, § 76). Con particolare riferimento alla verifica dell’attenzione posta dai giudici nazionali alla questione, la Corte rileva che, nel giungere alla suddetta conclusione secondo cui il messaggio di posta elettronica del ricorrente aveva turbato l’ordine e la tranquillità del suo luogo di lavoro causando disagi, i giudici non sembrano aver effettuato un esame sufficientemente approfondito del contenuto dell’e-mail contestata, del contesto in cui è avvenuta, della sua potenziale portata e impatto, delle conseguenze negative che l’e-mail avrebbe causato al datore di lavoro o sul luogo di lavoro né la gravità della sanzione inflitta al ricorrente, elementi che invece la Corte ha già preso in considerazione in cause relative alla libertà di espressione dei dipendenti (v., tra gli altri, P. S., sopra citata, § 70; M., sopra citata, §§ 46 e 53; si veda anche, mutatis mutandis, CEDU, R. c. Lettonia, 13/1/2015, n. 79040/12, §§ 82). A questo proposito, rilevando innanzitutto che le osservazioni contestate dal ricorrente erano state trasmesse tramite posta elettronica, la Corte ricorda che, oltre alla sostanza delle idee e delle informazioni espresse, l’articolo 10 ne tutela anche le modalità di espressione (P. S., sopra citata, § 53).

Per quanto riguarda il contenuto dell’e-mail del ricorrente, la Corte ricorda che occorre fare una chiara distinzione tra critica e ingiuria, essendo quest’ultima in grado, in linea di principio, di giustificare sanzioni (ibidem, § 67). Infatti, un attacco alla reputazione individuale compiuto attraverso espressioni gravemente ingiuriose nell’ambito professionale assume, a causa dei suoi effetti disgreganti, una gravità particolare, suscettibile di comportare severe sanzioni (ibidem, § 76).

Nel caso in esame, il ricorrente aveva denunciato nella sua e-mail le presunte disfunzioni nella gestione della società e tali critiche costituivano indiscutibilmente un interesse per la società interessata (v., mutatis mutandis, P. S., cit., § 72). A tal proposito, la Corte è solita ricordare, tuttavia, che i commenti offensivi possono esulare dall’ambito di tutela della libertà di espressione quando costituiscono una denigrazione gratuita, ad esempio se l’insulto è il loro unico scopo, e che invece l’uso di espressioni volgari non è consentito è di per sé decisivo nella valutazione di un’affermazione offensiva, perché potrebbe avere uno scopo strettamente stilistico (CEDU, T. c. Turchia, 21/2/2012, nn. 32131/08 e 41617/08, § 48).

Orbene, lo stile ed il contenuto provocatorio e alquanto offensivo della e-mail non possono essere considerati per la Corte EDU gratuitamente offensive nell’ambito del dibattito di interesse al quale il ricorrente era parte. Al riguardo, la Corte ricorda che forme di espressione artistica e di critica sociale come la satira, con l’esagerazione e la distorsione della realtà che le caratterizzano, e con l’uso di un tono ironico e sarcastico, mirano naturalmente a provocare e agitare (v., mutatis mutandis, CEDU, Vereinigung Bildender Künstler c. Austria, 25/1/2007, n. 68354/01, § 50).

Ricorda inoltre che il dovere di lealtà, riservatezza e discrezione dei dipendenti che lavorano in regime di diritto privato nei confronti del loro datore di lavoro non può essere così accentuato quanto l’obbligo di lealtà e riservatezza richiesto ai dipendenti del servizio pubblico (M., § 48 ed H., § 64, entrambi sopra citati; CEDU, C. c. Romania, 9/1/2018, n. 13003/04, § 56). Peraltro, poiché l’impatto del messaggio di posta elettronica contestato sul datore di lavoro e sul luogo di lavoro è stato molto limitato non si giustifica il licenziamento (v., CEDU, M. c. Grecia, 25/3/2021, n.1864/18, § 55).

Per quanto riguarda la gravità della sanzione, la Corte rileva che il comitato disciplinare del datore di lavoro, la cui decisione è stata infine approvata dai tribunali nazionali, aveva inflitto al ricorrente la sanzione massima applicabile, vale a dire la risoluzione immediata del contratto di lavoro di quest’ultimo, senza considerare la possibilità di imporre una sanzione più lieve nelle circostanze della specie (vedi, mutatis mutandis, F. B., sopra citata, § 49; M., sopra citata, § 54; H., sopra citata, § 49; R., citata sopra, § 92). Bene, quindi, è stata disposta la condanna nei confronti della Turchia, essendo palese la violazione dell’art. 10 della CEDU.

Precedenti giurisprudenziali:

Cass. pen., Sez. V, n. 13549 del 20/2/2008

Cass. civ., Sez. L, n. 21649 del 26/10/2016

Corte e.d.u., M. c. Turchia, 15/6/2021, n. 35786/19

Corte e.d.u., H. c. Ungheria, 5/11/2019, n. 11608/15

Corte e.d.u., H. c. Germania, 21/7/2011, n. 28274/08

Corte e.d.u., F. B. c. Spagna, 29/22/2000, n. 39293/98

Corte e.d.u., P. S. e altri c. Spagna [GC], 12/9/2011, nn. 28955/06 e altri 3

Corte e.d.u., R. c. Lettonia, 13/1/2015, n. 79040/12

Corte e.d.u., T. c. Turchia, 21/2/2012, nn. 32131/08 e 41617/08

Corte e.d.u., Vereinigung Bildender Künstler c. Austria, 25/1/2007, n. 68354/01

Corte e.d.u., C. c. Romania, 9/1/2018, n. 13003/04

Corte e.d.u., M. c. Grecia, 25/3/2021, n.1864/18

Riferimenti normativi:

Convenzione e.d.u.art. 10 (violazione)